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Un fucecchiese a Milano: la cucina toscana di Indro Montanelli

 

giovedì 23 ottobre 2014:

Un fucecchiese a Milano: la cucina toscana di Indro Montanelli

Tipi fucecchiesi a cura di Fabrizio Boschi

Ogni giorno, alle 13 in punto, si metteva a sedere al suo solito tavolino. Prima era il ristorante La Bice di via Borgospesso, o il Santini in corso Venezia poi, per anni, La Tavernetta da Elio in via Fatebenefratelli, a due passi dalla redazione del Giornale, allora in piazza Cavour (si trasferì in via Gaetano Negri dove ha sede oggi, nel giugno del 1979).

Dalla Toscana a Milano è stato un bel salto. Non facile per un abitudinario e difficile nei gusti come Indro Montanelli, adattarsi alla cucina milanese che in quegli anni non offriva molte varianti come oggi. Le tradizioni della buona cucina toscana erano un argomento ricorrente nelle conversazioni di Montanelli. E i suoi più stretti collaboratori lo sapevano bene. 

Il pranzo era un rito e Montanelli non voleva quasi mai pranzare da solo. 

Si alternavano i suoi fedelissimi colleghi Mario Cervi, Paolo Granzotto, la nipote Letizia Moizzi, alla quale era molto affezionato, gli amici di vecchia data di passaggio da Milano o persone che volevano conoscerlo e che anche lui voleva conoscere. Come, ad esempio, la porno attrice Moana Pozzi, donna che affascinò molto Montanelli, oltre che per la sua bellezza, anche per la sua grazia e intelligenza. Ma la compagnia preferita era quella dei colleghi del Giornale, in allegre conversazioni dominate sempre da lui, con la sua inesauribile sagacia. Talvolta però si isolava, “da vero misantropo che vive in mezzo agli altri per sentirsi più solo”, come lo definì Leo Longanesi.

Montanelli invitava, non si faceva invitare. A queste colazioni, che erano spesso e volentieri colazioni di lavoro, si avvicendavano accanto a Montanelli e al suo condirettore del momento, anche redattori del Giornale che avessero qualche problema da risolvere, o qualche proposta da fare. Solo con grandi insistenze e in circostanze del tutto eccezionali, e in ogni caso non da Elio dove Montanelli aveva il conto aperto, qualcuno è riuscito a pagargli il conto. E’ proprio a tavola che è nata la collaborazione fra Montanelli e Cervi, prima per il volume “L’Italia e Littoria” e poi per i 13 volumi della storia d’Italia.

Indro Montanelli e Elio Nicoli erano due veri autentici toscanacci trapiantati a Milano. Indro era di Fucecchio e Elio di Pescia. La Tavernetta da Elio per Montanelli era una specie di sacrario, era una sorta di luogo extraterritoriale da Milano, un pezzo di Toscana in terra meneghina, dove lui si rifugiava come in un luogo sicuro, per respirare un po’ l’aria di casa grazie alla cucina toscana, anche se solo per un’ora al giorno. Anche oggi chi entra da Elio s’aspetti di vederci il Grande Vecchio che pranza. Poi Elio ci sapeva fare col Direttore. 

A tavola era tutto un parlare sulla qualità dei fagioli e dei polli ruspanti. Elio incantava Indro infiorettando ogni portata con le sue storie. Quando gli presentava il menù lo infiocchettava con fronzoli di ogni genere per dire che i fagioli erano arrivati freschi freschi dal Casentino, che il pollo era come coltivato nell’aia di una cascina, la ricotta era del contadino di sua fiducia, etc. etc. Fatto sta che Montanelli, seppur inappetente di natura, dava l’impressione di volerci credere.

“Asciutta è la loro cucina, fatta di poche cose essenziali e refrattaria alle salse che qui (alla tavernetta da Elio, ndr), infatti, si chiamano, con disprezzo, pasticci. E nient’altro che asciuttezza è la loro stessa parsimonia, che non va confusa con l’avarizia perché, più che calcolo economico, è un abito mentale”, scriveva Montanelli dei toscani.

Nonostante fosse sempre puntuale a tavola, il suo arrivo al ristorante era sempre preannunciato da una telefonata di Iside Frigerio, la sua storica segretaria, perché una volta seduto Montanelli pretendeva di essere servito senza dover attendere. Il menu di Montanelli era molto semplice. Lui, secco come uno steccolo, mangiava come un uccellino, ma mai allontanarlo dai suoi gusti. Piatti semplici, di tradizione toscana. Indro s’accontentava di poco. Più che mangiare piluccava: due fagioli all’olio, tre spaghetti al pomodoro e basilico, oppure la ribollita, l’acqua cotta, due cucchiai di pappa al pomodoro, coniglio, trippa. Se beveva mezzo bicchiere di vino rosso, era Chianti riserva versato dal fiasco. A volte allungato con l’acqua. Liquori ne beveva meno ancora. Un dito di nocino, ma rarissimamente e sempre solo dopo cena.

Ogni tanto aveva voglia di gnocchi, ma in quel caso andava a mangiarli in un altro ristorante. Anche se non è mai stato chiaro se gli piacessero davvero o se lo facesse come vezzo, per copiare la passione di un personaggio storico che amava molto, il feldmaresciallo austriaco Josef Radetzky a lungo governatore del Lombardo-Veneto, simbolo stesso dell’occupazione austriaca il quale, come raccontava Montanelli, finì per sposare l’amante milanese, non perché l’amasse, ma in quanto era bravissima a fare gli gnocchi.

Gli piaceva anche la carne, la fiorentina in particolare, ma non ne gustava mai più di due o tre bocconi. Era ghiotto di fagioli (che schiacciava prima di mangiare), sia cannellini, che sommergeva di olio, che borlotti, i “burlotti” come li chiamava lui, e anche quelli con l’occhio, a patto che fossero cotti come si deve e non fossero “bucciosi”. Guastava anche le stringhe, ovvero i fagiolini, e i carciofi, che preferiva crudi in pinzimonio. Tra i preferiti i fagioli di Posina che voleva gustare in quella che è, a ragione, considerata la madre di tutte le minestre, il minestron, piatto denso e vellutato. Poi i toscanissimi fagioli di Sorana, senza la buccia, con sopra una “c”, una semifalce d’olio di frantoio e un po’ di pepe macinato. Ma solo un po’: “Troppo pepe - diceva - ti può arare il palato, levandoti il garbo di certi sapori; e il pepe nel tuo piatto metticelo tu, di tua mano, non lasciare che te lo sparga il cameriere di turno, a volte troppo zelante”.

Non era goloso di dolci, a meno che non fosse la “pattona”, il castagnaccio secco, anche se ne gustava solo il bordo croccante, facendo ammattire Elio: una volta passato per le sue mani, il castagnaccio senza più la balza, con un aspetto mangiucchiato, risultava impresentabile per gli altri clienti.

Non gli andava giù niente. Neanche il caffè. Per bere una tazzina ci metteva un quarto d’ora. Alla fine di ogni pasto fumava mezza sigaretta di solito Philip Morris, alle quali strappava il filtro giallo. Poi trovò, o gliele fornirono, le sigarette turche Turmac, quelle di forma schiacciata, chiuse in una confezione di cartoncino. Altrimenti quelle che fumava chi gli stava accanto, ma mai più di quattro o cinque al giorno. Dimezzate. Dopo due tiri le spegneva.

A tavola, e nella vita, Montanelli era un anarchico conservatore, due parole che solo in lui riuscivano a sposarsi alla perfezione.


Fabrizio Boschi

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