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I LUOGHI, LE STORIE - La tragedia dell’Heysel

 

martedì 12 maggio 2015:
di Riccardo Cardellicchio

La tragedia dell’Heysel

29 maggio 1985. Dopocena, sera dolce di primavera, comodamente seduto nella sala del Lux, a Fucecchio, per vedere sul maxischermo la finale di Coppa dei Campioni tra la Juventus e il Liverpool, in programma allo stadio Heysel di Bruxelles.
C’è tanta gente. L’attesa diventa lunga, snervante. Arrivano i primi sospetti. S’intuisce che è successo qualcosa di grosso, ma non si sa di che genere. Il telecronista non informa, non fa il suo mestiere, forse gli hanno detto di non farlo, per una questione di sicurezza. Le telecamere indugiano su settori tranquilli. Poi si presentano i due capitani. Leggono un comunicato. Dicono che, nonostante tutto, si gioca. Vince la Juventus, ma sono in pochi a esultare. Più tardi si hanno chiare le dimensioni della tragedia: trentanove morti - dei quali quattro toscani - e seicento feriti. Inconcepibile.
A trent’anni di distanza, rileggo un monologo. che la fa riemergere dal pozzo dei ricordi tristi. E’ di Walter Veltroni “Quando cade l’acrobata, entrano i clown”, pubblicato da Einaudi, cinque anni fa. La sua è una narrazione che si può definire teatrale: è il monologo di un uomo che, per assistere alla partita, ha detto una bugia alla sua donna: “Una sola bugia, la prima. Una bugia piccola e fatale. Vado a Londra con gli amici, ti avevo detto. L’addio al celibato, che stupida invenzione”.
Partito per assistere a un incontro esaltante, storico, l’uomo si ritrova immerso in un inferno, doppiamente inaccettabile, perché avviene in uno stadio, per un incontro di calcio. Tutto gli torna in mente quando dovrebbe essere felice: è in una località marina per festeggiare i dieci anni di matrimonio. “Non ero lontano per un peccaminoso viaggio da uomini grandi. Ero corso appresso a me bambino che scappavo, inseguendo una bambinata. Esserci, col corpo e gli occhi, per qualcosa desiderato da sempre”.
Lo stadio è inadeguato, gli animi surriscaldati, in specie quelli degli inglesi, gran bevitori di birra. L’avversario diventa il nemico. Va sconfitto. Annientato. E arriva il sangue. La paura anche. “Ci stiamo uccidendo tra di noi. Ci calpestiamo, ci saliamo sopra l’un l’altro. Sento carne flaccida o ossa fragili sotto i piedi. Corriamo tutti verso destra. Ma lì c’è il muro. E allora oscilliamo come una immensa liana. Un’onda triste di migliaia di persone che si sporgono e si gettano in avanti. Tutto, ma non i loro coltelli. Tutto ma non le loro bottiglie spezzate”. Si susseguono scene raccapriccianti. “Un mondo senza parole, solo urla. Un mondo di clown sguaiati. Senza la meravigliosa leggerezza del volo di un acrobata. Senza il sogno, arrotolato come una bandiera sconfitta. Senza anima, senza senso, senza speranza”.
Da quel giorno, per me, il calcio sarà un’altra cosa.

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