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Alla riscoperta delle tradIzioni fucecchiesi. Lo Zuccherino, dolce del Carnevale.

 

martedì 16 febbraio 2016:

Come vi avevamo già preannunciato la Pro Loco Fucecchio con lo Slow Food Empolese Valdelsa vogliono promuavere i prodotti della tradizione Fucecchiese la manifestazione partirà sabato 27 da piazza Montanelli con un mercatino dei nostri prodotti e al Nuovo Teatro Pacini nel quale si parlerà, e nonsolo, dei nostri prodotti di stagione il Fegatello e lo Zuccherino. La festa si sposterà a cena e a pranzo di domenica 28 presso la sede della Contrada Ferruzza ovviamente per degustare le prelibatezze del nostro Paese.

La volta passata avevamo parlato del fegatello oggi volevo parlarvi della storia del nostro zuccherino le notizie non sono molte:

Lo Zuccherino è il tipico dolce del Carnevale di Fucecchio. Nell’’800 alcune famiglie contadine iniziarono a preparare questo dolcetto per i propri figli e poi tenevano questa ciambellina appese nella dispensa infilato nei bastoni; la pasta, simile a quella di un biscotto secco, fa in modo che lo zuccherino si conservi a lungo, per tradizione, fino alla Quaresima.

Per questo per i più curiosi ho chiesto aiuto ad un amico Riccardo Cardellicchio, che ringrazio, che appena tornato dall'ospedale non si è fatto pregare e mi ha raccontato la Sua storia sullo Zuccherino che attribuisce alla sua Bisnonna e ai primi degli anni 30 è stato portato a Fucecchio dai suoi genitori, che voglio condividere con voi, per la ricetta dovrete invece aspettare alla prossima volta

 

 

Quasi una leggenda

Gli zuccherini di Marìche

di Riccardo Cardellicchio

 

Lei era la donna di compagnia della fattoressa. Era del paese, di Treggiaia, allora frazione di Palaia. Famiglia numerosa. Di contadini. Padre, madre, tre sorelle e due fratelli. Più la nonna.

Lui era il fattore. Veniva da Santa Croce sull’Arno. Vita tribolata. Il lavoro cominciato presto: prima nei campi, poi sui barrocci, a trasportare di tutto.

Come fosse arrivato a Treggiaia, a occupare il posto di fattore, non lo raccontò mai. A nessuno. Neanche a figliola e nipoti. Su questo, tacque pure lei. Nessuno, a dire il vero, ebbe il coraggio d’insistere.

Lei si chiamava Isitina. Un nome insolito, accantonato da subito per lasciar posto al terzo nome:

Maria, quasi obbligatorio, se non volevi che il parroco facesse storie al battesimo. Il secondo era Luisa, quello di sua nonna materna, l’unica che avesse conosciuta, poi. Ma la gente, le coetanee in special modo, avevano preso a chiamarla Marìche. E non è che le dispiacesse.

Lui, all’anagrafe, risultava Cesare. Il su’ babbo, morto giovane, era fissato con la storia romana. La primogenita, l’aveva messa a nome Giulia, lui Cesare e, l’ultimo, Orazio. Ma la su’ mamma aveva preferito chiamarlo Angiolo, che era il secondo nome. E ci teneva, lui. Il terzo era Giuseppe.

Il parroco s’era complimentato con i genitori per la scelta dei nomi.

Marìche e Angiolo.

“L’avevo sempre intorno. Tra i piedi”, raccontava la donna ai nipoti, ormai in su con gli anni. “Ma mi fidavo poco. Se ne dicevano tante su di lui. Che fosse un ganzerino. Che avesse donne di qua e di là. Peggio dei marinai. Che avesse storie con diverse contadine della fattoria. Anche la fattoressa si raccomandava che stessi in guardia. Però, mi garbava ed ero combattuta. Eh, se lo ero. Non ci dormivo, la notte, se mi ci andava il pensiero. Fui tentata anche di lasciare Treggiaia, per non vederlo più, per mettermi il cuore in pace, e andare a servizio. A Pontedera. Sì, a Pontedera, da certi signori, conosciuti in casa della fattoressa. La famiglia s’oppose. La mi’ mamma disse: ‘un se ne parla neanche, bimba”-

Fare la donna di compagnia della fattoressa era impegnativo, ma divertente. Soprattutto, la faceva sentire importante. E le faceva evitare il lavoro nei campi. Che era duro. In collina, poi.

Invece, passava alcune ore ai fornelli. La fattoressa era ghiotta. E lo si vedeva: il suo fisico dava sul grasso. Cucinare, dopotutto, non le dispiaceva. Anzi. Imparava non poco. Nello stesso tempo, sottoponeva al giudizio della fattoressa quanto appreso dalla su’ mamma e dalla su’ nonna materna, un donnino, che avresti pensato, tant’era secca, campasse di spirito santo. Lingua tagliente con tutti, ma non avara di consigli per le nipoti e i nipoti.

Alle nipoti, parlava di cucina. Voleva che s’impegnassero intorno al fuoco. Non tanto per fare. E che tenessero conto dei mesi e delle stagioni. Non si doveva andare fuori del seminato.

“Un giorno, s’era di carnevale, eccolo entrare in cucina, Angiolo”. A Marìche s’illuminarono gli occhi, e non fece niente per nascondere l’emozione ai nipoti, che si stupirono pensando agli anni che erano passati. “Stavo facendo gli zuccherini. Mi prese per i fianchi e mi baciò sul collo. Mi lasciai andare. Gli volevo troppo bene per perdere l’occasione”.

“E gli zuccherini che fine fecero?”, chiese la nipote.

“Alcuni bruciarono e altri rimasero lì, da finire, per un bel pezzo. E dire che la fattoressa ci teneva. Erano i dolci di carnevale. Li voleva sempre in tavola. E li offriva agli ospiti, con il vinsanto. Erano i nostri dolci. I dolci che avevano fatto la mi’ mamma e la mi’ nonna. Erano il carnevale. Stesso impasto dei brigidini di Lamporecchio: farina, uova, zucchero, semi di anice, un po’ di sale e un po’ di vaniglia .

E io mi sono sempre chiesta se sono nati prima i brigidini o gli zuccherini. Da quel che mi si raccontava, sul canto del fòo, sembra che gli zuccherini non avessero forma. Che la mi’ nonna gliela avesse data usando un bicchiere, per farli tondi e con il buco nel mezzo, e un coltello per tracciare segni precisi, piccole scanalature. A me, piaceva zupparli nel latte. La ricetta, me la portai dietro, quando vostro nonno decise di smettere di fare il fattore per diventare commerciante, chiamato, a Fucecchio, dalla sorella Giulia. Non da sposata, lo seguii. Il matrimonio venne dopo, nell’agosto 1921. Vostra madre era nata da un mese. Ne facevo tegliate, di zuccherini, per carnevale, e la gente di Fucecchio imparò a conoscerli e ad apprezzarli.

Poi cedetti la ricetta a fornai amici, i fratelli Biagi”. La donna era visibilmente stanca, ma decisa a non mollare. “ Per la quaresima, niente dolci. Si tornava a farli a Pasqua. La schiacciata, si faceva. Ma prima c’era il pan di ramerino. Che aveva vita breve. Durava soltanto il giorno dei sepolcri, il giovedì santo. Farina bianca, lievito di birra, zucchero, zibibbo, rametti di ramerino, sale, olio d’oliva. Mai saputo il perché dell’usanza”.

Un giorno volle tornare a Treggiaia. Ne sentiva nostalgia. Il diabete l’aveva resa quasi cieca. I nipoti ce la portarono. Parcheggiata l’auto nella piazza con gli alberi, la fecero scendere con prudenza. Volle essere portata davanti alla casa dei suoi genitori, poi all’edificio della fattoria dove aveva passato bei momenti. Era emozionata. A un certo punto, una donna grassa si fece avanti e quasi urlò: “Marìche”. Era la fattoressa, ormai non più tale da tanto tempo. Dopo abbracci e baci, disse:

“Ho nostalgia dei tuoi zuccherini, Marìche. Mi ci sono provata, a farli, ma non ci sono mai riuscita”. Nel ritorno, Marìche non fiatò, gli occhi sempre chiusi. Umidi.

Riccardo Cardellicchio

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